by
Valentina Marini
In un’era di costanti cambiamenti”
“Nello scenario contrassegnato dalla trasformazione”
“Stiamo vivendo una rivoluzione epocale”.
Più o meno è questo ciò che leggiamo come premessa di tanti contributi di letteratura o articoli di attualità. Sembra che stiamo vivendo uno sconvolgimento come mai prima di ora. Ma siamo davvero sicuri che questo stia accadendo solo a noi e solo in questa fase storica? Probabilmente, e più semplicemente, stiamo sempre e solo parlando di cambiamento, come parte integrante della vita umana, ma declinato (forse per moda?) in una visione di stra-ordinaria eccezionalità storica.
Se penso al cambiamento, mi viene in mente come prima immagine – quasi automatica – la filosofia del “tutto scorre” (“PANTA REI”, ERACLITO). Ogni cosa cambia, non c’è nulla di immutato e presumibilmente l’innovazione è semplicemente una risposta all’inevitabile perenne trasformazione del tutto.
Certo è, però, che mai come a partire dal 2020 tante abitudini personali e professionali sono state messe in discussione o eliminate dall’oggi al domani. Questo ha comportato – e sta comportando – innumerevoli sfide anche nelle organizzazioni. Forse mai come in questo momento la funzione del “Change Management” è risultata così strategica e fondamentale. Come si accompagna e favorisce il cambiamento mentre tutte le carte in tavola continuamente vengono messe in discussione? Fatico a pensare che ci sia qualcuno più avanti di altri in questa vera incertezza. Sono convinta, però, dell’importanza del confronto e dello scambio e con questa premessa ho deciso con Digital Attitude di intervistare alcuni Professionisti con esperienze e punti di vista di valore su questo macro argomento del cambiamento e su temi attuali come New Ways of Working, New Ways of Learning e Digital Mindset.
BIO: Paolo De Fabritiis
Quasi trent’anni fa, all’inizio del primo stage da neolaureato, il mio manager mi diede da leggere un documento, datato 1972, “Il discorso di Marsiglia” di Antoine Riboud, all’epoca CEO del Gruppo che vent’anni dopo si sarebbe chiamato Danone.
Mi colpì una sua frase : “…la responsabilità di un’impresa non termina sulla porta di una fabbrica…” che sintetizzava bene la sua visione del “doppio progetto economico e sociale” che spetta ad un’impresa. Questa è la sintesi della mia vocazione professionale: ho sempre lavorato in grandi gruppi multinazionali e ho avuto la fortuna di iniziare nel Gruppo Danone, dove all’epoca la direzione del personale di chiamava “Direzione delle Relazioni Umane e Sociali”…si capisce quindi perché mi sono innamorato di questo mestiere, che mette insieme la mia passione per l’organizzazione aziendale, il mio sentirmi bene nei contesti multiculturali e internazionali e la possibilità di mettere al centro del mio lavoro i valori, le competenze, le esperienze e il contributo che ciascuna persona può dare.
Quasi trent’anni di gestione, sviluppo e direzione delle risorse umane, prima in Danone, poi in Kraft, quindi con GBFoods in Spagna, a Barcellona, cinque anni nella città più bella dove una famiglia italiana può espatriare, durante i quali ho anche provato a fare lo startupper digitale, capendo presto che non lo ero e tornando quindi alla mia passione, nel Gruppo Bolton. Sono un family man, adoro la mia famiglia e il mio lavoro. Ho fatto errori nel lavoro e sono cresciuto in fretta: questo è il mio segreto, insieme alla fortuna di avere avuto capi e una compagna di vita che mi hanno permesso di sbagliare.
Oggi, e anche di più in futuro, tutte le organizzazioni aziendali, dalle grandi multinazionali alle più piccole imprese o start up, devono saper mettere i propri collaboratori nelle migliori condizioni per operare in contesti sempre più multiculturali e intergenerazionali. In questo contesto, penso che la capacità di coinvolgere le persone in progetti di cambiamento sia principalmente un tema di “leadership empatica”. La chiave a mio avviso è investire energie e tempo per comprendere e far comprendere “a tutti” il “perché” sia necessario cambiare, cercando di coinvolgere la più ampia rappresentanza di collaboratori nelle proposte delle soluzioni organizzative.È banale dirlo, ma il cambiamento lo fanno le singole persone, se si sentono coinvolte e capiscono il “perché?”e “a cosa serve agire diversamente da come hanno sempre fatto?”. C’è, quindi, bisogno di un management capace di fare le domande giuste e disponibile ad ascoltare tutte le risposte, che vuole e che sa valorizzare il contributo di ciascuno.
Chi in azienda si occupa dello sviluppo delle persone e della loro crescita professionale, ha oggi come prima responsabilità quella di garantire a tutti gli strumenti per un apprendimento e una formazione continua, re-skilling and up-skilling: la tecnologia è un abilitatore di cambiamento organizzativo che si rinnova ed evolve troppo velocemente e per questo le persone vanno messe nelle condizioni organizzative di poter e saper imparare e disimparare continuamente nel corso della loro vita professionale.
Per la direzione risorse umane la sfida è quella di promuovere il giusto mindset organizzativo, affinché il management sappia supportare e dare fiducia ai propri collaboratori, mettendo loro a disposizione gli strumenti e le condizioni organizzative adeguate per acquisire nuove competenze, promovendo e incentivando la proattività e l’apertura alle novità.
L’altra sfida per i direttori risorse umane è quella di essere dei “role model”, favorendo la sperimentazione e l’adozione delle nuove tecnologie digitali nei processi e nei sistemi di gestione e sviluppo del personale: per essere sincero, non posso dire che le direzioni risorse umane siano oggi i “champion dell’innovazione tecnologica” nelle aziende; anzi, spesso siamo “resistenti” all’innovazione e, a mio avviso, la chiave per migliorare è affidarsi alle nuove generazioni. Per chi come me ha superato i cinquanta, c’è una grande opportunità, che è allo stesso tempo una seria responsabilità manageriale: quella di affidare ai più junior HR, espressione della generazione Z, il compito di “innovare e pensare diversamente” i processi, gli strumenti e le modalità di relazionarsi con e tra i colleghi e con i futuri collaboratori che si vogliono attrarre. I più giovani sono normalmente i più entusiasti delle nuove tecnologie, non hanno barriere culturali e di competenze e non sono condizionati dal classico “…ma noi lo abbiamo sempre fatto così..?!”. Con loro, il direttore del personale deve saper essere un buon coach, permettere loro di rischiare e sbagliare e farli diventare gli ambasciatori dell’innovazione HR: sono certamente credibili e hanno l’entusiasmo per realizzare i cambiamenti necessari.
Quando parliamo di innovazione in HR, a mio avviso le priorità sono la qualità degli spazi lavorativi e l’immediatezza e la facilità di accesso degli strumenti di comunicazione, collaborazione e gestione del personale, per interagire in modo più facile, più ingaggiante e più produttivo.
Penso in particolare alle tecnologie per abilitare il lavoro in remoto, agli spazi di co-working che diventano un elemento distintivo e di “competitività aziendale” per attirare, motivare e trattenere i collaboratori.
E penso alla “gestione in mobilità” della comunicazione tra manager e collaboratore e alla facilità di accesso alle piattaforme per la gestione dei contenuti formativi, spesso limitata dalla complessità delle procedure e dei tools in uso.
L’innovazione in HR deve in sostanza rispondere alle aspettative crescenti di un più facile accesso alle informazioni e ai dati aziendali, per dare maggiore flessibilità all’organizzazione del lavoro, con modalità operative che sono più familiari, aumentando così la produttività del lavoro e rendendo più facile l’integrazione degli spazi e dei tempi lavorativi e non, sempre più liquidi.
Pensando a quanto sia importante per il benessere di un’azienda favorire un ambiente di lavoro collaborativo, dove le persone stiano bene tra loro, si potrebbe incentivare la possibilità di destinare (ad esempio) due ore alla settimana al servizio di un collega, per aiutarlo, trasferendogli know-how o conoscenze, o semplicemente per dargli una mano nel suo lavoro, o facilitarlo nel suo inserimento in azienda…Insomma, “incentiverei a donare” un po' di tempo agli altri, convinto che chi dona qualcosa di sé, riceve sempre in cambio molto di più…
Per sviluppare il digital mindset nelle organizzazioni, a mio avviso, occorrono orientamento all’innovazione, alle condivisioni e alle contaminazioni di idee, agilità operativa e decisionale, capacità di apprendimento dagli errori. E, come dicevo prima, capacità di imparare e disimparare continuamente. È quindi prima di tutto un tema di governance e leadership per incentivare un’organizzazione ispirata a tali principi.