by
Valentina Marini
“In un’era di costanti cambiamenti”
“Nello scenario contrassegnato dalla trasformazione”
“Stiamo vivendo una rivoluzione epocale”.
Più o meno è questo ciò che leggiamo come premessa di tanti contributi di letteratura o articoli di attualità. Sembra che stiamo vivendo uno sconvolgimento come mai prima di ora. Ma siamo davvero sicuri che questo stia accadendo solo a noi e solo in questa fase storica? Probabilmente, e più semplicemente, stiamo sempre e solo parlando di cambiamento, come parte integrante della vita umana, ma declinato (forse per moda?) in una visione di stra-ordinaria eccezionalità storica.
Se penso al cambiamento, mi viene in mente come prima immagine – quasi automatica – la filosofia del “tutto scorre” (“PANTA REI”, ERACLITO). Ogni cosa cambia, non c’è nulla di immutato e presumibilmente l’innovazione è semplicemente una risposta all’inevitabile perenne trasformazione del tutto.
Certo è, però, che mai come a partire dal 2020 tante abitudini personali e professionali sono state messe in discussione o eliminate dall’oggi al domani. Questo ha comportato – e sta comportando – innumerevoli sfide anche nelle organizzazioni. Forse mai come in questo momento la funzione del “Change Management” è risultata così strategica e fondamentale. Come si accompagna e favorisce il cambiamento mentre tutte le carte in tavola continuamente vengono messe in discussione? Fatico a pensare che ci sia qualcuno più avanti di altri in questa vera incertezza. Sono convinta, però, dell’importanza del confronto e dello scambio e con questa premessa ho deciso con Digital Attitude di intervistare alcuni Professionisti con esperienze e punti di vista di valore su questo macro argomento del cambiamento e su temi attuali come New Ways of Working, New Ways of Learning e Digital Mindset.
Ospite di oggi Fabrizio Zeba, che ringraziamo di aver accettato da vero “Surfer” di partecipare a questa iniziativa editoriale.
Laureato in economia, dopo un master in Gestione di impresa intraprende un percorso professionale caratterizzato da queste tappe fondamentali:
Da 5 anni è Talent Acquisition Manager di Gruppo Iren per il quale, con il suo team, ha gestito la ricerca e la selezione di oltre 1.500 risorse inserite in Azienda per sostenere la crescita e sviluppare nuove opportunità di business. Ha avviato importanti collaborazioni con Scuole e Università di eccellenza per scoprire nuovi talenti e garantire il necessario ricambio generazionale a una realtà aziendale in continua evoluzione. Nel 2019 il suo team Iren, da LinkedIn, è stato premiato come “Best Talent Acquisition Team”.
Il grande cambiamento dovuto all’emergenza è stato prima di tutto il fatto di doversi trovare - in molti casi - a cimentarsi con il lavoro a distanza, cercando veloci alternative per andare avanti. Così il digitale è diventato pane quotidiano anche per le organizzazioni più resistenti.
Quello che abbiamo sicuramente vissuto nella prima fase, però, è stato il prevalente abuso dell’”Home Working”, lontano dalla sostenibilità. Da questa grande sperimentazione obbligata, si è usciti con due trend: chi sta mettendo in discussione processi e strumenti guardando i cambiamenti nella cultura, nel business e nelle nuove esigenze delle persone e chi è tornato alla situazione pre-pandemica, facendo difficilmente i conti con una realtà che richiede nuove modalità di lavorare e che genera aspettative diverse.
La questione centrale si racchiude per me nell’esigenza di un rinnovato equilibrio: servono profonde riflessioni, guardare – ad esempio - come la pandemia sia stato un grandissimo acceleratore e continui a garantire estese opportunità, senza trascurare però il bisogno di incontrarsi fisicamente per confrontarsi e fare squadra. È necessario ascoltare le Persone che stanno cambiando la loro scala dei valori e questo dipende ovviamente anche dalle varie turbolenze dettate dalle situazioni attuali, come la guerra, che richiedono di farci sentire più protetti. Si ricerca maggiore tempo personale per il benessere, si vivono i valori tradizionali ma in modo nuovo: sempre più spesso si può rinunciare anche alla carriera e alle trasferte, perché è la cura di sé e dei propri cari la vera priorità. Per questa ragione vediamo lo Smart Working, flessibile, sempre più apprezzato e soprattutto tra i giovani.
In sintesi, questi cambiamenti stanno richiedendo alle aziende di dare nuove risposte. Questo non significa che ci debba essere apertura organizzativa totale ma coerente con sistemi di valori, business e aspettative delle persone in trasformazione, prendendo atto di come non sia solo un tema di retribuzione ma di welfare e più ampio impatto.
Per rispondere mi riferisco ai settori industriali, multiutility, che seguo più da vicino nel quotidiano. Osservo il mercato del lavoro condizionato dalle aziende che adottano gli stessi strumenti e processi e quindi una concentrazione della ricerca sugli stessi profili professionali.
Al contempo, vedo come le persone cerchino sempre di più lavori di prossimità, faticando a trasferirsi. Questo fa assottigliare e rende ancora più complessa la ricerca per queste figure molto ambite, quindi, grande difficoltà tra alta concorrenza e nuovi modi di percepire il lavoro e le priorità. In linea generale, riscontro poca propensione a cambiare e ad affrontare nuove esperienze.
Pensando a quello che sta accadendo e guardando alla mia esperienza, credo che nella selezione sia sempre più importante essere chiari nella comunicazione: chi sa comunicare efficacemente può attrarre le persone giuste e questo oggi vale di più. Bisogna costruire le condizioni per far vedere dentro alle organizzazioni e non intendo la comunicazione artefatta, ma la trasmissione della cultura autentica e dei valori veramente premianti. I recruiter devono essere trasparenti e rappresentare in modo chiaro ed esaustivo l’organizzazione. Questo determina il match di successo tra persona e azienda, al contrario, quando c’è incoerenza o contraddizione nella comunicazione, le persone se ne vanno. Un fenomeno sempre più all’ordine del giorno, essendo venuto meno il mito dello stesso lavoro dall’inizio della carriera alla pensione. Facendo riferimento anche al crescente trend delle “grandi dimissioni”, voglio sottolineare come spesso siano situazioni che dipendono dal capo. E qui credo davvero importante chiedersi da cosa scappino le persone e, invece di assumere nuove persone in sostituzione, fermarsi a capire il malessere, quindi: “non asciugare il mare con secchielli bucati”.
Rispetto alla selezione aggiungo un ultimo punto: mettere sempre in discussione i format, i contenuti e le proposte magari anche andando fuori dagli schemi; penso ad esempio solo a quanto ho visto cambiare dal 2018 a oggi le attività con le Università…
Per prima cosa, ci tengo a dire che nell’Onboarding non può essere coinvolto solo il neoassunto ma si devono prendere in considerazione il capo e il referente progetto con cui la persona lavora. Al contempo, credo fondamentale che i programmi proposti in questa fase non si estraggano troppo dalla quotidianità e dalla realtà organizzativa.
Il processo di Onboarding funziona quando alla persona appena entrata si fa vivere e sentire velocemente il contesto, in modo autentico e sinergico con tutte le parti, quindi – ad esempio - guarda e coinvolge il responsabile sull’accoglienza, sulla gestione e sulla programmazione dello sviluppo delle persone affidate. In questo la formazione ha una valenza forte e indissolubile: non è distinta ma parte integrante dell’Onboarding, per permettere un veloce allineamento delle competenze e conoscenze necessarie alle “new entry” per essere inserite a pieno titolo nell’organizzazione. Tale formazione deve essere adeguata, ben customizzata, attiva nella quotidianità (cioè la quotidianità deve essere pensata come stimolo e apprendimento) e deve prevedere anche i responsabili attivi in una modalità di coach.
Il punto chiave di questa mia riflessione risiede nei responsabili come allenatori-coach, che gestiscono e vogliono ottenere il meglio per oggi e domani, pensando concretamente alla crescita delle persone che collaborano con loro. Un approccio che richiede loro generosità, pazienza e disponibilità.
Parto da uno slogan “facciamolo insieme” questo per sottolineare l’importanza di far percepire che non si è soli e si è in gioco insieme.
Credo che questa spinta gentile costante possa aiutare a guidare anche gli altri, come supportare nello sconforto quando il progetto non sta andando nella giusta direzione ad esempio.
La vedo anche come un invito all’assunzione di responsabilità e alla presa le decisioni sempre nel rispetto dei ruoli ma nella visione dell’insieme come priorità.
Nel quotidiano può facilitare molti comportamenti o possibili errori, immagino ad esempio a come tale approccio possa limitare la paura dell’idea migliore proposta da un altro, ottimizzando riunioni e briefing.
Un buon esempio, anche in questo caso specifico di insieme, vale più di mille parole.
Rispondo in modo semplice ma molto efficace, a mio avviso: vedere e stare a contatto con gli adolescenti. Dialogare con loro costringe a stare al passo e conoscere strumenti e modalità nuovi o diversi. Credo che difficilmente si accendano in modo così veloce e concreto le esigenze e la curiosità ad esplorare e sperimentarsi con il nuovo. Io ne sono una dimostrazione: ho iniziato ad utilizzare i social con mia figlia…